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E’ scritto a Firenze tra il dicembre del 1943 e il luglio del 1944 durante l’occupazione tedesca di Firenze. Pubblicato dalla casa editrice Einaudi nel settembre del 1945 ebbe subito un notevole successo suscitando dibattiti e riflessioni sul rapporto-civiltà contadina e modernizzazione. Il libro rappresenta nella letteratura italiana uno dei capolavori, nella vita di Carlo Levi l’inizio della sua attività di scrittore.
La sovra copertina della prima edizione recita: “Come in un viaggio al principio del tempo Cristo si è fermato a Eboli racconta la scoperta di una diversa civiltà. E’ quella dei contadini del Mezzogiorno: fuori della Storia e della Ragione progressiva, antichissima sapienza e paziente dolore. Il libro tuttavia non è un diario: fu scritto molti anni dopo l’esperienza diretta da cui trasse origine, quando le impressioni reali non avevano più la
prosastica urgenza del documento[…] il lettore può trovarvi insieme una ragione di poesia, un mondo di linguaggio, uno specchio dell’anima, e la chiave di problemi storici, economici, politici e sociali altrimenti incomprensibili.”
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E’ il “libro da cui deve cominciare ogni discorso su Carlo Levi scrittore”… “un tipo di libro raro nella nostra letteratura, inteso a proporre le grandi linee d’una concezione del mondo, d’una reinterpretazione della storia” così lo definisce Italo Calvino. Scritto alla fine del 1939, mentre è esule in Francia e mentre infuria l’inizio della seconda guerra mondiale, viene pubblicato solo nel 1946. Nella prefazione della prima edizione Levi scrive che si trattava di “un piccolo libro che doveva essere soltanto una prefazione ad un libro molto più grande, scoprendo ad ogni pagina quello che mi pareva la verità del mondo.” Questo saggio pieno di suggestioni filosofiche e psicanalitiche,si conclude affermando che “Il domani non si prepara con i pennelli ma nel cuore degli uomini: e gli uomini che hanno seguito i loro Dei al fondo dell’inferno, anelano di tornare alla luce e di germogliare, come un seme sotterrato. Dal sommo della Paura nasce una speranza, un lume di consenso dell’uomo e delle cose. Muoiono gli Dei, si ricrea la persona umana. Possono la morte e la notte rivolgere il destino? La guerra dell’uomo con se stesso è finita, se davvero l’arte ci indica il futuro, e se possiamo leggerlo sul viso e nei gesti degli uomini.”
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“La notte, a Roma, par di sentire ruggire leoni. Un mormorio indistinto è il respiro della città, fra le sue cupole nere e i colli lontani, nell’ombra qua e là scintillante; e a tratti un rumore roco di sirene, come se il mare fosse vicino, e dal porto partissero navi per chissà quali orizzonti. E poi quel suono, insieme vago e selvatico, crudele ma non privo di una strana dolcezza, il ruggito dei leoni, nel deserto notturno delle case.” Questo è uno dei passi più poetici del secondo romanzo, L’Orologio, di Carlo Levi pubblicato nel 1950. Mentre nel Cristo si rivelava un mondo fuori del tempo e della storia, nell’Orologio si scopre un mondo nel quale tutti i tempi e tutte le storie sono contemporanei. Levi racconta la fine del governo resistenziale di Ferruccio Parri, l’inizio della crisi dei partiti liberale e azionista, l’avvento al potere di Alcide De Gasperi e della Democrazia cristiana, e soprattutto di Roma e dell’Italia di allora. Il libro appare come un contenitore in cui si mescolano le atmosfere, le sensazioni, l’entusiasmo dell’immediato dopoguerra con il contraddittorio e l’immobilismo della classe politica che ha una visione astratta dei problemi.
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Si tratta del diario di tre viaggi compiuti dall’autore nelle terre della Sicilia tra il 1952 e il 1955. Con questo libro si apre un nuovo filone letterario nella produzione leviana quello del reportage di cui aveva già dato prova nei suoi articoli pubblicati su La Stampa e su L’Illustrazione italiana.
Le parole sono pietre, pubblicato nel 1955, è il racconto duro dell’arretratezza dei contadini siciliani “lo spettacolo della più estrema miseria contadina”, di una terra dove diventa difficile far applicare quelle leggi che lo Stato italiano ha approvato per la redistribuzione della terra, per migliorare le condizioni di lavoro, per applicare i diritti che dovrebbero valere per tutti, ma che in quelle terre devono sottostare ai privilegi dei potenti. Il libro è denso di fatti che lo scrittore trasfigura inserendoli nel simbolo della coscienza umana, dove “…le lacrime non sono più lacrime ma parole, e le parole sono pietre”: sono pietre le parole di Francesca Serio, la madre di Salvatore Carnevale, il contadino ribelle assassinato dalla mafia perché fondatore, a Sciara nel 1951, della sezione del Partito socialista e della Camera del lavoro; sono pietre scagliate nell’aula del Tribunale di Palermo da una madre siciliana che racconta e sfida cosa nostra, la legge del feudo e le complicità del potere istituzionale.
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Secondo libro di viaggi di Carlo Levi pubblicato nel 1956. Questa volta è il resoconto giornalistico del viaggio effettuato tra il 17 ottobre e il 19 novembre del 1955 nella capitale sovietica, a Leningrado, a Kiev, in Armenia e in Georgia.
“Così come gli abitanti della Nuova Inghilterra hanno serbato i modi puritani della patria di origine, o come i canadesi hanno conservato il francese del’700, i sovietici sono rimasti i custodi dei sentimenti e dei costumi dell’Europa, di quando l’Europa era unita, e credeva, tutta intera, in alcune poche verità ideali e aveva fiducia nella propria esistenza”. E’ questo quello che Carlo Levi ci racconta nel suo libro, una narrazione ricca di dettagli, di descrizioni di un mondo che allo tempo stesso è antiquato e giovane. L’autore ne rimanda un immagine poetica, fanciullesca e si lascia trasportare dalla descrizione dei luoghi e delle anime che incontra.
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Non si tratta di romanzo, ma di un saggio scritto da Levi per accompagnare un volume di fotografie, in bianco e nero, di János Reismann. Il testo, con il titolo Un volto che ci somiglia, fu tradotto in tedesco e pubblicato nel 1959 dall’ editore Belser di Stoccarda. L’anno successivo venne pubblicato in Italia da Giulio Einaudi con il titolo Un volto che ci somiglia: ritratto dell’Italia. Il volume raccoglie le fotografie di noti monumenti del nostro Paese, di marine, di paesi sulle colline, di quartieri popolari delle grandi città come quelli di Napoli e Roma, ma anche i volti di contadini, pescatori e bambini che vivono intorno ai monumenti del passato. Ad accompagnare queste immagini l’analisi di Levi di un’Italia rurale e urbana che vive il suo tempo rendendo « …vivo il passato…» come se «… il tempo abbia poggiato una mano amica sopra ogni cosa…» facendo trasparire i tratti di un’identità italiana come identità culturale contrapponendosi all’identità nazionale che si era già costituita con lo Stato liberale e con il fascismo.
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Pubblicato nel 1959 racconta le sensazioni del suo viaggio realizzato nel secondo dopoguerra in Germania. Il titolo è tratto da un verso del Faust di Goethe, in cui si narra del guardiano della torre che scruta e vede nella notte incendi e segni di massacro ovunque, Durch den Linden Doppelnacht, per “la doppia notte dei tigli”. Nella sovra coperta della prima edizione si legge « Sempre i paesi di Carlo Levi diventano sempre “suoi”, legati a questo ospite in perpetuo stato di grazia da un rapporto come di consanguineità, d’identificazione con una realtà interiore, con un simbolo lirico, esistenziale e razionale e storico. La Germania no, è e resta per Levi l’antitesi, l’altro da sè, e pure la sua sollecitudine conoscitiva lo porta ad aggredirla da ogni lato, a cercare di inglobarla, a farne scaturire quella che al di là delle scintillanti vetrine del “miracolo economico tedesco” e delle saracinesche dell’oblio del passato, è la sua anima».
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Ultimo racconto di viaggio pubblicato nel 1964 dedicato questa volta alla Sardegna. Carlo Levi visita l’isola in due volte, a dieci anni di distanza, nel maggio del 1952 e nel dicembre del 1962. Le riflessioni che l’autore trascrive nel suo diario di viaggio raccontano una terra con i suoi miti e suoi archetipi, una descrizione “barbarica e fiabesca”, come la definisce Franco Antonicelli, “una Sardegna di pietre e di pastori, e di uomini moderni e vivi”. L’autore si sofferma a descrivere i problemi quotidiani della terra sarda, raccogliendo i luoghi e i volti del territorio più interno, raccontando in particolare di zone che si imprimono nella sua memoria come Nuoro, Orgosolo e Orune. Tutto il miele è finito, il titolo prende spunto da un canto funebre sardo in cui la madre piange il figlio assassinato paragonandolo al miele che non c’è più, rappresenta una terra che non è immobile, senza tempo, ma una realtà in cui si avverte il cambiamento della storia, partendo dalle immagini arcaiche e primordiali: “Qui nell’isola dei sardi, ogni andare è un ritornare”.